Alberto Moravia, le frasi dello scrittore e giornalisti

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Alberto Moravia è stato uno scrittore, giornalista e drammaturgo italiano. Nato a Roma nel 1907, l’autore è considerato uno degli intellettuali più importanti del XX secolo. Lo scrittore, che fu a lungo legato ad Elsa Morante e a Dacia Maraini, raggiunse la fama nel 1929 con il romanzo Gli indifferenti.

Nei suoi scritti, l’autore affronta temi come la sessualità, l’alienazione e l’esistenzialismo. Tra i suoi romanzi più famosi spiccano titoli come La noia e La ciociara.

Di seguito si riportano alcune frasi celebri di Alberto Moravia, tratte dalle sue opere e i suoi scritti.

Quando non si è sinceri bisogna fingere, a forza di fingere si finisce per credere; questo è il principio di ogni fede.

Per una donna i corteggiatori sono come le collane e i braccialetti: ornamenti di cui, se può, preferisce di non disfarsi.

Quando si agisce è segno che ci si aveva pensato prima: l’azione è come il verde di certe piante che spunta appena sopra la terra, ma provate a tirare e vedrete che radici profonde.

Si vede che lo sport rende gli uomini cattivi, facendoli parteggiare per il più forte e odiare il più debole.

Vedi, non c’è coraggio e non c’è paura… ci sono soltanto coscienza e incoscienza… la coscienza è paura, l’incoscienza è coraggio.

Anima è quello che appartiene a tutti e a nessuno. Anima è amore. Anima è idea. Anima è libertà. Anima è Dio.

C’è nei sogni, specialmente in quelli generosi, una qualità impulsiva e compromettente che spesso travolge anche coloro che vorrebbero mantenerli confinati nel limbo innocuo della più inerte fantasia.

Le amicizie non si scelgono a caso ma secondo le passioni che ci dominano.

L’invidia è come una palla di gomma che più la spingi sotto e più ti torna a galla e non c’è verso di ricacciarla nel fondo.

La disoccupazione è una cosa per il disoccupato e un’altra per l’occupato. Per il disoccupato è come una malattia di cui deve guarire al più presto, se no muore; per l’occupato è una malattia che gira e lui deve stare attento a non prenderla se non vuole ammalarsi anche lui, ossia diventare, appunto, disoccupato.

Le donne sono come i camaleonti, che dove si posano prendono il colore.

Sulle sabbie del deserto come sulle acque degli oceani non è possibile soggiornare, mettere radici, abitare, vivere stabilmente. Nel deserto come nell’oceano bisogna continuamente muoversi, e così lasciare che il vento, il vero padrone di queste immensità, cancelli ogni traccia del nostro passaggio, renda di nuovo le distese d’acqua o di sabbia, vergini e inviolate.

Un male incerto provoca inquietudine, perché, in fondo, si spera fino all’ultimo che non sia vero; ma un male sicuro, invece, infonde per qualche tempo una squallida tranquillità.

La storia dell’umanità non è che un lungo sbadiglio di noia.

Niente ha successo come il successo.

Gli scrupoli portano lontano. Guarda gli inglesi, per esempio, che hanno conquistato mezzo mondo: sono pieni di scrupoli.

Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso di mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altri simili cause.

Su tutto questo non so dare altra spiegazione, se non che la contraddizione costituisce il fondo mobile e imprevedibile dell’animo umano.

L’uomo vuole sempre sperare. Anche quando è convinto di essere disperato.

Le esperienze che contano sono spesso quelle che non avremmo mai voluto fare, non quelle che decidiamo noi di fare.

Non tutti i delitti hanno riflessi sociali. Ma ci sono delitti, invece, in cui tutto è sociale, dall’arma usata all’ambiente fisico, dai caratteri dei protagonisti al loro modo di vita, tutto, perfino il dolore, perfino il peccato, perfino la riparazione, perfino il pentimento.

Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza.

Questo è certamente uno dei peggiori effetti della guerra: di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà.

Questo per dire che ci si abitua a tutto e che la guerra è proprio un’abitudine e che quello che ci cambia non sono i fatti straordinari che avvengono una volta tanto ma proprio quest’abituarsi, che indica, appunto, che accettiamo quello che ci succede e non ci ribelliamo più.

Se fossi religioso, direi che è venuta l’apocalisse, quando appunto si vedranno i cavalli pascolare il grano. Siccome non sono religioso, mi limito a dire che sono venuti i nazisti, il che, forse, è la stessa cosa.