Giovanni Falcone, le frasi del magistrato

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Insieme all’amico e collega Paolo Borsellino, Giovanni Falcone è diventato un simbolo della lotta alla mafia e all’illegalità. Nato a Palermo nel 1939, Falcone è stato infatti un magistrato che per tutta la vita si è impegnato contro la criminalità organizzata e per questo ha pagato con la vita.

Il giudice è stato assassinato insieme alla moglie, Francesca Morvillo, e ai tre uomini della scorta in un attentato mafioso che il 23 maggio 1992 sconvolse l’Italia. Dopo la strage di Capaci tutto il Paese si ritrovò infatti faccia a faccia con la follia omicida di Cosa Nostra.

In questa pagina troverete alcune tra le più belle frasi di Giovanni Falcone, parole che rinnovano l’importanza di tenere sempre alta la bandiera della legalità.

È tutto teatro. Quando la mafia lo deciderà, mi ammazzerà lo stesso.

La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine.

Possiamo sempre fare qualcosa: massima che andrebbe scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto.

Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi.

In un gruppo come la mafia, che deve difendersi dai nemici, chi è debole o malato deve essere eliminato.

Chi me lo fa fare? Soltanto lo spirito di servizio.

Antonino Agostino? Io a quel ragazzo gli devo la vita.

La mia grande preoccupazione è che la mafia riesca sempre a mantenere un vantaggio su di noi.

Questo è il paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa, e la bomba non esplode, la colpa è tua che non l’hai fatta esplodere.

Credo che Cosa Nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia durante la seconda guerra mondiale e dalla nomina di sindaci mafiosi dopo la Liberazione.

L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza.

Io credo che occorra rendersi conto che questa non è una lotta personale tra noi e la mafia. Se si capisse che questo deve essere un impegno – straordinario nell’ordinarietà – di tutti nei confronti di un fenomeno che è indegno di un paese civile, certamente le cose andrebbero molto meglio.

La mafia già da molto tempo funge da modello per la criminalità organizzata. Ne consegue che questa sostanziale unitarietà del modello organizzativo consente di utilizzare il termine mafia in senso ampio per tutte le più importanti organizzazioni criminali.

Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d’onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti ad inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità?

È difficilmente contestabile che le organizzazioni mafiose (Cosa Nostra siciliana e ‘ndrangheta calabrese) probabilmente sono molto più collegate tra di loro di quanto si affermi ufficialmente e che le stesse non soltanto ben conoscono il funzionamento della macchina statale, ma non hanno esitazioni a colpire chicchessia, ove ne ritengano l’opportunità.

La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società.

Il quadro realistico dell’impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata. Emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall’impressione suscitata da un dato crimine o dall’effetto che una particolare iniziativa governativa può esercitare sull’opinione pubblica.

Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.

Temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall’altro, e alla resa dei conti, palpabile, l’inefficienza dello Stato. Un’affermazione del genere mi costa molto, ma se le istituzioni continuano nella loro politica di miopia nei confronti della mafia, temo che la loro assoluta mancanza di prestigio nelle terre in cui prospera la criminalità organizzata non farà che favorire sempre di più Cosa Nostra.