Federico Fellini, 28 frasi del celebre regista

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Federico Fellini è stato un celebre regista italiano. Considerato uno dei nomi più importanti del cinema mondiale, ha diretto capolavori come Amarcord, La strada, I vitelloni, La dolce vita e Le notti di Cabiria. Alcune immagini della sue pellicole sono talmente popolari da essere diventate iconiche: un esempio su tutte il bagno di Anita Ekberg e Marcello Mastroianni nella Fontana di Trevi a Roma.

Nel 1943 sposò l’attrice Giulietta Masina a cui fu legato fino alla morte, avvenuta il 31 ottobre 1993. Le sue spoglie riposano accanto a quelle della moglie e del figlio, morto poco dopo la nascita, nel cimitero di Rimini.

Di seguito si riportano alcune delle più belle frasi di Federico Fellini, maestro di cinema e di vita.

Il cinema è come una vecchia puttana, come il circo e il varietà, e sa come dare molte forme di piacere.

Sono autobiografico anche quando parlo di una sogliola.

Un linguaggio diverso è una diversa visione della vita.

Non voglio dimostrare niente, voglio mostrare.

La più grande unità sociale del Paese è la famiglia, o due famiglie, quella regolare e quella irregolare.

Il contrasto di chi si illude e parte in quarta contro i mulini a vento è sempre motivo di comicità.

Il cinema è il modo più diretto di entrare in competizione con Dio.

Drive In è l’unico programma per cui vale la pena di avere la tv.

Benigni e Villaggio sono due ricchezze ignorate e trascurate.

La censura è sempre uno strumento politico, non è certo uno strumento intellettuale.

Per esempio, è fascismo anche l’esibizionismo del sesso.

Se non ci fosse la censura gli italiani se la farebbero da soli.

Le versioni degli avvenimenti le modifichiamo continuamente per non annoiarci.

Il cinema è narrativa nel senso ottocentesco: ora tentiamo di fare qualcosa di diverso.

La malinconia è uno stato d’animo nobilissimo: il più nutriente e il più fertile.

Paolo Villaggio? Un uomo evidentemente deciso a rovinarsi con le sue mani. E siccome è bravo, vedrete che ci riuscirà a furia di partecipare a tutte le scemenze televisive possibili.

Se non parlo, se non racconto le storie dei miei film, non lo faccio per civetteria (il gusto del segreto), né per ragioni scaramantiche, come qualcuno pensa, ma perché è pericoloso raccontare un film prima di averlo fatto. Almeno per me.

Il cinema non ha bisogno della grande idea, degli amori infiammati, degli sdegni: ti impone un solo obbligo quotidiano, quello di fare.

Non faccio un film per dibattere tesi o sostenere teorie. Faccio un film alla stessa maniera in cui vivo un sogno. Che è affascinante finché rimane misterioso e allusivo ma che rischia di diventare insipido quando viene spiegato.

Avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo. Ne sono lusingato. Cosa intendano gli americani con “felliniano” posso immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco, fregnacciaro è il termine giusto.

Dai bilanci ho sempre rifuggito, sono operazioni masochistiche e inutili: neppure i bilanci degli Stati o delle società funzionano, figuriamoci quelli di un regista.

La dolce vita andrebbe proiettato tutto insieme, in una sola enorme inquadratura. Non pretende di denunciare, né di tirare le somme, né di perorare l’una o l’altra causa. Mette il termometro a un mondo malato, che evidentemente ha la febbre.

Devo confessare che in questi ultimi tempi ho conosciuto dei musicisti che faranno strada. Un certo Giuseppe Verdi, per esempio. E anche quel Rossini non è male. Ciaikowski, poi, ha un certo talentaccio.

È una vergogna che io, venuto dalla Romagna, cioè da una terra tra le capitali della lirica, abbia cominciato ad apprezzare l’opera e a entusiasmarmi per certi geni musicali soltanto negli ultimi tempi. Ma sto cercando di riparare.

Marcello Mastroianni è un magnifico attore. Ma è soprattutto un uomo di una bontà incantevole, di una generosità spaventosa. Troppo leale per l’ambiente in cui vive. Gli manca la corazza, certi pescicagnacci che conosco io sono pronti a mandarselo giù in un boccone.

Io vorrei provarla come attrice. Mina ha la faccia della luna. Gli occhi sono dolci e crudeli. La bocca chiama dal cielo le comete: basta un fischio. Poi è tanta. Il mio amico Sordi dice che è “‘na fagottata de roba”.

Il cinema ha questo di salutare: anche se la voglia originaria si è dileguata, la realizzazione comporta una tale serie di problemi concreti che vai avanti a fare la cosa senza renderti conto di non ricordarla più. Il film lo giri senza sapere esattamente di che si tratta.

Dopo la guerra dominava il sentimento della rinascita, della speranza: tutto il male era finito, si poteva ricominciare. Adesso, non so se quest’ombra che si allunga sull’Italia preveda una resurrezione… Adesso questo manca del tutto: c’è soltanto il sentimento d’un buio in cui stiamo sprofondando.